Recensione: “Kubo e la spada magica” di Travis Knight

« Non battete ciglio, da ora. Prestate attenzione a quello che vedrete e ascolterete, per quanto strano e insolito a voi sembri. In più, vi avverto: se vi muovete, se guardate altrove, se dimenticate una parte del racconto, anche per un istante, il nostro eroe di sicuro perirà. »



Fin dai primi teaser rilasciati nel 2015, ero certa che questa storia mi avrebbe conquistata.
Così è stato.
“Kubo e la spada magica”, uscito in Italia il 3 novembre 2016, è un film d’animazione prodotto da Laika, lo stesso studio che ha creato i film di “Coraline e la porta magica”, “ParaNorman” e “Boxtrolls – Le scatole magiche”.
Travis Knight tesse una narrazione fatta di magia, tradizione e amore che ha ampiamente meritato i numerosi premi vinti e la nomination come miglior film d’animazione agli Oscar 2017 (quest’anno sarà una dura lotta, me lo sento).
Kubo è un dolce bambino che passa le giornate portando gioia e allegria nel paese vicino cui abita: ha la capacità di raccontare storie grazie alla musica del suo shamisen e agli origami animati magicamente. Vive in una grotta a ridosso di uno strapiombo insieme alla madre, che a causa di eventi e ricordi passati trascorre i giorni in silenzio, dando qualche segno di lucidità solo alla sera prima di addormentarsi. Ella, infatti, è una donna forte e dai poteri straordinari, ma distrutta dal dolore per la perdita del marito e la persecuzione del padre, il quale ha scagliato contro di loro le sue due sorelle determinate a ritrovarli, ad ogni costo.
La storia che il ragazzo narra ogni giorno al suo villaggio parla proprio di suo padre: il potente samurai Hanzo; ma è una storia che non riesce mai a concludere perché, prima che cali il buio, sa di dover correre a casa. Quando una sera s’attarda, Kubo si scontra con i suoi nemici ed è costretto a rivestire i panni del protagonista di quella stessa storia a lungo portata avanti.
Nel suo viaggio, fisico ma anche di formazione, sarà accompagnato da una scimmia severa ma protettiva e da Scarabeo, guerriero maledetto alla ricerca del suo sé.
Molteplici sono i temi che vengono affrontati nel film. Il più importante è sicuramente quello del valore della famiglia e della potenza dei ricordi, affiancato dalla solitudine e dal lutto; il dramma, però, viene trasmesso in modo delicato e romantico, dal punto di vista di un bambino che nella sua innocenza si sforza di vedere tutto per il meglio: “Sono felice, ma potrei esserlo di più”, “Questa è una bella storia, ma potrebbe essere migliore”.

L’elemento del Giappone feudale è perfetto per l’atmosfera del film: dà un tocco magico unico nel suo genere, rimanendo fedele alla cultura orientale. I colori dei paesaggi e degli eleganti kimono indossati incantano gli occhi e fanno rimanere letteralmente a bocca aperta.

La perfezione dell’ambiente si scontra con un altro tema: l’imperfezione terrena a confronto del mondo spiritico e la comprensione che per arrivare a nuova vita bisogna passare prima dalla morte, in tutti i sensi interpretabili.
Ho apprezzato molto che i personaggi che fanno da spalla a Kubo non fossero i classici pupazzi messi lì per far ridere il pubblico più giovane con battute, molto spesso inappropriate e detestabili. Anzi, Scimmia e Scarabeo hanno un ruolo chiave nella crescita del protagonista e rappresentano il simbolo di ciò che gli manca, ma che ha sempre desiderato.
Una chicca graditissima è presente nei titoli di coda: il filmato della lavorazione del demone scheletro in stop-motion, tecnica utilizzata per tutti i film della Laika.
La canzone finale di sottofondo è “While my guitar gently weeps” dei The Beatles, cantata per l’occasione dalla meravigliosa Regina Spektor.