Review Party: Recensione di “L’assassino che è in me” di Jim Thompson

« È questo che ero, e non potevo cambiare. Anche se non ci fossero stati rischi, dubitavo di poter cambiare. Avevo finto così a lungo che ormai non dovevo più farlo. »

Lou Ford è il classico vicesceriffo di una classica cittadina fin troppo tranquilla: la Central City degli anni 50. Gentile e cordiale, l’unico difetto che potrebbe avere è essere logorroico, ma la gente sopporta perché nel suo lavoro è proprio efficiente. “Davvero una brava persona”, questo è ciò che tutti dicono.
Eppure dietro una facciata di pura umanità, qualcosa si annida nel buio della mente. Bussa lentamente, prima con calma e poi sempre con più insistenza, fino a emergere ed esplodere in un modo totalmente inaspettato. Un godimento dato dal disagio degli altri e dal fingere di essere qualcuno che in realtà non è.
Come può evolversi la situazione quando sulla scena di delitti efferati si trova sempre la presenza dello stesso, rassicurante sceriffo?
La mente di Lou è un viaggio ossessivo che lascia la pelle d’oca, letteralmente. La spirale di negatività in cui si cade è qualcosa di davvero inquietante da seguire, perché parte con un tono ridicolmente ironico e leggero fino a cadere in ragionamenti contorti e diabolici, che fanno comprendere al lettore chi sia davvero il protagonista della storia. Jim Thompson si diverte in un modo che rasenta il sadismo a scavare nella psicosi umana fino al fulcro malato che diviene simbolo di una parte insita in tutti noi. Siamo gli unici a conoscerci davvero nell’intimo, quando ci troviamo da soli a fare i conti con noi stessi.
“L’assassino che è in me” non è solo un’opera che merita di essere scoperta, ma è sicuramente degna di nota all’interno del panorama letterario noir.

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