Review Party: Recensione di “Il ragazzo che decise di seguire suo padre ad Auschwitz” di Jeremy Dronfield

« Non riusciva nemmeno a chiedersi come se la sarebbe cavata se il ragazzo non l’avesse seguito di sua spontanea volontà. Lo spirito della promessa infranta di tanto tempo prima viveva nel ragazzo, il legame che univa padre e figlio e che li aveva tenuti in vita fino a quell’istante. Se davvero fossero morti lì, quantomeno non sarebbero stato soli. »

Quando il tappezziere ebreo Gustav Kleinmann viene costretto a partire per la Germania su uno di quei famosi treni che tutti temono e vogliono evitare, sa che lui e il figlio Fritz stanno andando incontro a morte certa. Perché essere un ebreo nel 1939 non è facile, essere umano lo è ancora meno. Ha inizio un calvario interminabile, che porta alla separazione del padre dal figlio. Ma Fritz non lo vuole abbandonare e, nonostante tutti gli dicano di dimenticarlo per avere salva la vita, il ragazzo pretende di salire su uno dei vagoni diretti verso Auschwitz. 

Gustav intanto scrive, di sé, della sua famiglia, della sua nuova esistenza in gabbia. Il suo diario diventa una testimonianza fondamentale degli errori indicibili dei nazisti ma anche un simbolo del legame famigliare che può essere più potente di coloro che tentano in ogni modo di spezzarlo. 
Questo prezioso libro, edito per HarperCollins, rappresenta una storia unica che descrive l’Olocausto sia nelle vicende più drammatiche che in quelle piene di speranza, date da un’atmosfera incredibilmente delicata ed emotiva. Jeremy Dronfield narra con uno stile abile, intenso e diretto, la storia di una famiglia condannata a morte certa, evidenziando però ogni particolare che li rende ancora vivi e certi di potersi ritrovare, quando tutto sarà finito. 
Un romanzo per niente facile, ma nessuno di questo genere lo è mai, che è importante per continuare a tenere presente la memoria di coloro che non ci sono più direttamente a raccontarsi al mondo.

Review Party: Recensione di “La piccola farmacia letteraria” di Elena Molini

« Ebbi per la prima volta, dopo tanto tempo, la sensazione che le cose sarebbero andate per il verso giusto. Avevo bisogno di sperare che fosse così. »

Blu ha un obiettivo nella sua vita: far diventare la propria passione per i libri un vero e proprio lavoro. I tentativi sono già stati innumerevoli, ma nessuno soddisfacente abbastanza per le sue ambizioni. Così, nasce la Piccola Farmacia Letteraria, un luogo caldo e accogliente di sua invenzione in cui la donna può diffondere la letteratura attraverso le storie che si trasformano, per i clienti, in veri e propri toccasana per l’animo.
Avete presente quando un libro parla al vostro io interiore fin dalla prima pagina? Ma che dico dalla prima pagina, soltanto dalla copertina?
Ecco, “La piccola farmacia letteraria” mi ha toccato profondamente dal primo istante in cui l’ho visto. Perché in fondo tutti coloro che hanno questa incredibile passione che è la lettura hanno lo stesso identico sogno della protagonista: poter avere la possibilità di vivere ogni giorno per quel mondo che tanto amiamo. A me in particolare, questa storia ha fatto piangere, perché mi ricorda gli obiettivi dell’adolescenza, i sogni post diploma annebbiati dall’università e infine i fallimenti che ancora adesso mi trascino appresso. Vedere che c’è chi ce l’ha fatta mi fa commuovere oltremodo.
Non è una recensione obiettiva, me ne rendo conto, ma di fronte a questo libro non riesco proprio ad esserlo.
I desideri di Blu sono i miei stessi desideri, che sempre più intensamente bussano alla mia mente e che si scontrano con le difficoltà che mi sembrano sempre così tanto insormontabili da superare. Questo libro mi fa piangere perché è esattamente ciò che vorrei per la mia vita.
Con uno stile semplice, scorrevole, ma che sa comunicare a tutti, Elena Molini ha raccontato quella che di fatto è la sua storia e di quella piccola Farmacia che esiste davvero e ha il suo cuore nella meravigliosa Firenze. Devo assolutamente tornarci, per poterla conoscere di persona e ringraziarla per tutto: per le lacrime, per la gioia, per l’ispirazione a continuare a lottare per il mio personale sogno.
Chissà se un giorno anche questa piccola tana potrà davvero essere un luogo fisico aperto a tutti coloro che desiderano entrarvi. Per quattro chiacchiere, un libro letto comodamente in poltrona, un aromatico té a profumare gradevolmente l’ambiente.

Review Party: Recensione di “La bambina e il nazista” di Franco Forte e Scilla Bonfiglioli

« Ho sentito la speranza di una rinascita, quando si parlava di Sangue e Terra. Quando si diceva che saremmo risorti nella ricchezza dei nostri campi e della natura selvaggia, nella purezza dei nostri sogni e del nostro sangue che fa di noi la razza più forte, degna di guidare le altre.» S’interruppe per un istante, fissando nel vuoto, poi scosse la testa. «Tutto questo, Hans, non ha niente a che vedere coi sogni. Quello che c’è in quei rapporti ha a che vedere solo con gli incubi. »

Hans è un ufficiale delle SS, eppure non ha mai condiviso la minacciosa ideologia portata avanti con violenza da Hitler. Il suo desiderio è quello di avere una vita tranquilla, al fianco della moglie e della figlia Hanne, soffocando qualsiasi istinto di ribellione e piuttosto voltandosi dall’altra parte, pur di non avere problemi di accuse di tradimento.
Ma quando l’uomo riceve l’ordine di trasferirsi al campo di concentramento di Sobibór, la sofferenza che vede laggiù è insopportabile, così come le ingiustizie attuate nei confronti dei prigionieri. La conoscenza di Leah, bambina ebrea che le ricorda la sua piccola Hanne, lo porterà a rimettere in discussione tutto e a trovare finalmente il coraggio per agire come avrebbe da sempre voluto fare.
“La bambina e il nazista” è un libro che fa paura. Non solo per i contenuti, pieni di orrori che solo dal titolo si possono intuire, ma per ogni azione che i protagonisti devono compiere, per le conseguenze sempre in agguato, per un epilogo che sembra nero come il cielo coperto dai fumi delle bombe.
È angosciante addentrarsi nella storia e il solo scorrere delle pagine incute un’intensa agitazione, che tormenta e tortura in modo crudele. Eppure, non se ne può fare a meno. Perché dietro l’odio mostrato c’è sempre uno spiraglio d’amore e il lettore va alla ricerca proprio di quello, della speranza anche nella situazione più buia.
Romanzi come questo sono sempre quelli che pungono una parte della mia emotività che non può essere toccata se non da vicende reali immerse nei periodi più tragici della storia dell’umanità. È quasi un fastidio nascosto, ma che in realtà maschera lo sdegno e la mia incapacità di accettare che certe cose siano davvero state perpetrate in passato. Non voglio pensarci, non per far finta di niente, ma perché soffermarsi è semplicemente troppo doloroso. Al tempo stesso è così necessario amare e diffondere certe opere, perché ben presto saranno l’unica testimonianza che rimane di milioni di vite spazzate via in un istante.
Con un tono incredibilmente delicato, Franco Forte e Scilla Bonfiglioli sono stati in grado di descrivere un dramma tristemente noto senza dimenticare un messaggio d’amore, che diventa il simbolo dell’intera lettura. Ho concluso il libro commossa e con lacrime vere agli occhi, ne ero consapevole già a monte, ma felice di essermi arricchita interiormente grazie a due personaggi straordinari come Hans e Leah. 

Review party: Recensione di “Storia della nostra scomparsa” di Jing-Jing Lee

« Lasciavamo i porci liberi di scorrazzare per il villaggio, come fa la gente oggi con i cani in giardino. I porci sono come le persone: metà buoni e metà diavoli. »

Wang Di vive la sua infanzia e giovinezza a cavallo della seconda guerra mondiale. Un brutto periodo in cui nascere e crescere, perché qualunque cosa può strapparti alla tua felicità. Purtroppo, il destino della ragazza si rivelerà ben presto crudele, quando è costretta a lasciare la sua famiglia per diventare “donna di conforto”, schiava dei militari nemici, costretta a subire ogni loro desiderio senza il suo consenso.
Wang cresce circondata dagli orrori con il nome di Fujiko, e quando la guerra finisce cerca di affossare tutto in un angolo dei ricordi: non ne dovrà mai parlare con nessuno, nemmeno con il futuro marito. Quando questo muore, lei ormai anziana rimane sola a fare i conti con i fantasmi del passato che riemergono svelando una realtà che ancora adesso si fa di tutto per affossare.
Con una scrittura delicata ma estremamente decisa ed emotiva, Jing-Jing Lee cerca di raccontare una storia che possa denunciare la situazione tragica delle “comfort house”, un dramma che ancora adesso il Giappone tenta di nascondere, ma che per fortuna sta sempre di più uscendo allo scoperto anche grazie a scrittrici coraggiose come lei.
L’opera descrive non solo la difficoltà di rimanere umani in periodo di guerra, ma anche e soprattutto essere donna in quegli stessi anni. Wang Di è nata in un contesto dove concepire un maschio era fondamentale e in cui lei poteva sopravvivere soltanto secondo i dettami dell’epoca. Eppure, non sembra mai perdere quella purezza che la caratterizza in ogni pagina, da quando era solo una neonata in fasce fino alla vecchiaia. Ricordare è molto doloroso, ma è un modo che la donna ha per riappropriarsi della propria identità e per confortare, in qualche modo, la sua vita da Fujiko.
“Storia della nostra scomparsa” è un romanzo potente e inaspettato, che scava nelle coscienze, fa riflettere e si pone come obiettivo il più nobile e sempre più difficile da realizzare: insegnare al presente il passato per far sì che non si ripeta in futuro.

Review Party: Recensione di “Fiore di sangue” di Crystal Smith

« Era una strana esperienza osservare un’anima districarsi dal cadavere, sfilarsi di dosso quell’involucro grottesco nello stesso modo in cui una donna raffinata si libera di un mantello pieno di fango. Quando emerse, suo figlio l’attendeva e lei gli andò incontro. Non appena si toccarono scomparvero, via dal confine verso qualunque luogo esistesse al di là, oltre il mio sguardo. »

Aurelia ha il dono della magia ed è in grado di vedere i fantasmi attorno a sé. Una condanna a morte assicurata, considerato che è la principessa di Renalt e il Tribunale agisce da inquisizione contro coloro che praticano queste arti arcane. Per scampare ad una accusa ufficiale, la ragazza è costretta a scappare, verso il regno nemico di Achlev.
Aiutata dal mentore Simon, Aurelia inizia un cammino verso la presa di coscienza non solo dei propri poteri ma anche di una nuova identità. Un obiettivo si fa strada nella sua mente: spazzare via il Tribunale per dare vita a una nuova era prospera e lontana dal terrore.

Con uno stile scorrevole e accurato, Crystal Smith introduce il lettore in un mondo oscuro e magico, a cavallo tra luce e ombre in continua lotta fra loro. Aurelia e il gruppo che la supporterà dovranno fare i conti con qualcosa di più grande e forte e gli esiti non sono del tutto scontati. Dell’intera storia ho adorato la cultura dei popoli e le caratteristiche legate ai tipi di magia, spiegati come se anche il lettore potesse assistere alle lezioni del Mago Simon e fare proprie queste fantastiche nozioni.
Immedesimarsi nella protagonista non è facile, ma ho apprezzato di lei il fatto che sia davvero umana, perché le sue scelte portano a delle conseguenze che non sempre vanno a vantaggio della causa.
In quest’opera troverete magia, sangue, rituali e ribellione che vanno in contrasto con l’assetto politico dei regni descritti, cercando lo scontro per andare verso un futuro migliore.

Fiore di Sangue è il primo libro di una trilogia che promette grandi emozioni, attraverso una realtà in cui combattere la persecuzione diventa sempre più necessario. Non tutto viene sviluppato e approfondito, ma nel complesso ciò che viene presentato suscita la curiosità nel leggere i prossimi capitoli, che spero arriveranno presto anche in Italia.