Recensione: “Io non ti conosco” di S.J. Watson

« Ho paura, ma c’è anche qualcos’altro. Eccitazione. Lo stomaco va su e giù, sento sulla lingua la scarica metallica dell’adrenalina. Non ho più scuse: è qui, siamo nella stessa città. […] Potrei scoprire cosa sa. Se conosceva mia sorella. »
Julia Plummer è convinta di avere il totale controllo della propria vita.

Suo marito, Hugh, la ama e la rispetta nonostante un passato tumultuoso e suo figlio, Connor, le vuole bene, anche se l’età dell’adolescenza scalpita per prendere il sopravvento.

Connor è il figlio di sua sorella Kate, concepito in età adolescenziale, affidato alla coppia proprio dalla donna, la quale non si è sentita in grado di far crescere un neonato. Ma è ormai un po’ di tempo che da Parigi si è fatta sentire proprio per questo motivo: vuole che Julia le restituisca Connor, le spetta di diritto.


La notte successiva all’ennesima discussione, Kate viene trovata morta in un vicolo.
Julia non si dà pace, sa che la polizia non indagherà mai davvero a fondo. Così, decide di farsi giustizia da sola e trovare il colpevole da sé: si iscrive al sito d’incontri che frequentava Kate, entrando inevitabilmente a far parte di quel mondo oscuro, spesso sottovalutato, delle relazioni on-line.
Julia sarà costretta a rendersi conto di non essere la donna che ha sempre pensato d’essere. Imparerà a conoscere una nuova sé stessa, capace di fare cose che mai si sarebbe sognata di fare.
Ma siamo proprio sicuri che la persona che sta dall’altra parte dello schermo sia davvero chi dice di essere?
Ho conosciuto Watson quando uscì nelle librerie il suo primo libro: “Non ti addormentare”. Sono rimasta subito colpita dal suo modo di narrare, semplice e pulito. Le storie raccontate in prima persona tendono sempre ad annoiarmi, ma lui è riuscito a tenermi incollata alle pagine dall’inizio alla fine, in entrambi i casi.
“Non ti addormentare” è stata una storia incredibile, ma con “Io non ti conosco” direi che questo scrittore ha davvero superato sé stesso, entrando a far parte dei miei autori preferiti in assoluto.
Di thriller non ne leggo molti, ma posso sicuramente affermare che S.J. Watson sia folgorante. Non mi viene in mente termine migliore per descriverlo. È riuscito a creare delle storie avvincenti, da tenere col fiato sospeso e da far sentire i brividi lungo la schiena.
Inizialmente si potrebbe pensare che siano storie banali, facili e dal finale intuibile. Il lettore si convince, riga dopo riga, di aver capito subito dove l’autore voglia andare a parare; ma non capisce che in realtà è l’autore stesso che proprio in quel momento lo sta ingannando, più e più volte. Watson è in grado di prendere le deduzioni del lettore e di stravolgerle, sconvolgendone la mente fino al finale.
“Io non ti conosco” è una storia che non ti aspetti. Di primo impatto può sembrare il classico libro con il delitto da risolvere. In realtà, nasconde in sé una storia ben più profonda e tormentata, fatta di inganni, vendette e ricatti. Vuole essere, a parer mio, anche una denuncia verso le chat d’incontri, che spesso portano a forti delusioni oppure, nei casi peggiori, a fatti di cronaca nera.
Un esempio televisivo è la serie “Catfish – False identità” trasmesso su Mtv e diretto da Nev Schulman , vittima di una donna che lo ingannò facendogli credere di essere un’altra persona.
A Watson non servono molte descrizioni per inquadrare gli eventi e i personaggi vengono, nonostante ciò, caratterizzati alla perfezione. L’unico difetto che purtroppo è doveroso sottolineare è la quantità spropositata di refusi ed errori grammaticali della traduzione italiana.

Se siete amanti del genere, ma anche se non lo siete affatto, troverete in “Io non ti conosco” una storia meritevole, da cui difficilmente ne uscirete delusi. 
Personalmente,da quando Watson mi ha conquistata, avrei bisogno di almeno un suo libro al mese.

Recensione: “Gala Cox – Il mistero dei viaggi nel tempo” di Raffaella Fenoglio

« No, non era possibile che stesse succedendo davvero. A me, poi. E dire che non ero una impreparata a questo genere di situazioni. »

Attenzione: la seguente recensione potrebbe non essere esente da spoiler. Invito i lettori a leggere con cura.
È un gran dispiacere parlare di un libro quando non ha soddisfatto le proprie aspettative.
Il libro della Fenoglio si presenta come una storia fantasy, con qualche elemento steampunk e dalle tinte vittoriane di una Londra ormai dimenticata. Un viaggio nel tempo, di quelli veri, tra misteri, spiriti e omicidi.
Le premesse sono positive, la copertina attira; bello pensare che spendendo  14,90 si ha tra le mani un buon prodotto, di ben 485 pagine.
Insomma, non potevo chiedere di meglio.
La protagonista è Gala Cox Gloucestershire, ragazzina quattordicenne alle prese con uno dei periodi più difficili che le siano mai capitati. Suo padre è scomparso il giorno successivo ad un’animata discussione; senza dire nulla è andato via, lasciando la figlia in preda ai sensi di colpa.
L’anno prima la sua migliore amica, Nadia, è morta tragicamente. Gala si ritrova quindi sola, troppi sono i ricordi legati alla vecchia scuola, così decide di cambiare. Frequenta il liceo artistico, ma ama le materie tecniche e scientifiche, l’ingegneria, ed è affascinata dai lavori del padre. Qui conosce Dennis, coetaneo e compagno di classe, ragazzo estroverso e loquace, fin troppo.
Gala è restia a creare nuovi legami, la sua vita si concentra sulla giornata scolastica e nella villa in cui abita. Nella sua stanza, tra allevamento di formiche e progetti da realizzare, si sente al sicuro. Lontana dal dolore e dai ricordi.
La madre di Gala è una medium; evoca gli spiriti e comunica con loro. Non è una sorpresa per la protagonista ritrovarsi perfetti sconosciuti, di varie epoche, gironzolare nei corridoi. Specie dal momento in cui la sua tata è proprio uno spirito: Matunaaga, il maggiordomo indiano, e Ildegarda di Bingen, monaca benedettina e governante bacchettona.
Ma quando nella sua stanza si materializza proprio la sua amica morta, rimane spiazzata per la sorpresa. Ora Nadia è una usqead: uno spirito che viaggia nel tempo e che prende il posto di persone che muoiono prima che il loro destino sia segnato. Adesso, infatti, vive nella Londra del 1889 nei panni di Edvige, una ragazza morta a causa di Black Coat, una sorta di Jack lo Squartatore. L’amica ha bisogno di aiuto ed è proprio a Gala che si rivolge; così, insieme, tornano indietro nel tempo.
Fin qui, sembrerebbe tutto chiaro ed avvincente, ma è anche da qui che iniziano i problemi. Innanzitutto, il motivo per cui Gala viaggia nel tempo.
Edvige chiede all’amica di venire nel passato per aiutarla a risolvere un problema di eredità. Lei vuole avere i soldi di un parente defunto per poter fare una vita agiata, ma Mr Roberts ha tutte le intenzioni di impedire che ciò avvenga. Edvige chiede aiuto a Gala soltanto perché lei tiene in ordine la contabilità di sua madre e di conti e calcoli se ne intende.
Personalmente, trovo questo pretesto per l’avvio della storia un po’ debole, tirato per i capelli. Considerando che l’effettivo problema viene alla fine risolto da un facoltoso avvocato, l’unica persona a cui fin da subito ci si deve rivolgere.
Passiamo al punto successivo: il corso degli eventi. Lo stile di scrittura è semplice, grammaticalmente non c’è nulla fuori posto. Ma spesso ci sono parti descrittive, fin troppo descrittive; Raffaella si sofferma su particolari che non danno nulla in più alla narrazione, anzi. Invece di arricchire si ha come effetto il rallentamento generale della storia e la mancanza di colpi di scena. Facendo presente la grandezza del libro, solo nell’ultimo centinaio di pagine si ha la vera e propria azione: concentrata alla fine, con la conseguenza di arrivare alla risoluzione dei misteri frettolosamente. Il percepito è che la scrittrice, ad un dato punto, si sia resa conto di dover concludere il libro in breve tempo e che quindi sia stata incapace di gestirlo al meglio, anche se sua creazione.
Uno degli avvenimenti importanti, è la scoperta dell’identità di Black Coat. Dovrebbe essere un momento di sorpresa e shock; oggettivamente il personaggio in questione era l’ultimo a cui si potesse pensare. Ma a quel punto ero talmente esausta e spazientita che la rivelazione mi è totalmente scivolata addosso senza emozionarmi. Per non parlare della successiva morte di questo antagonista, risolta in quattro e quattr’otto nel giro di un paio di capitoli:
Capitolo 60: Black Coat è vivo.
Capitolo 61: Totale cambio di scena.
Capitolo 62: Nelle prime righe, Gala chiede a Dennis che fine avesse fatto Black Coat. Lui semplicemente le risponde che si è buttato nel Tamigi, che ha aspettato un po’ di tempo che riemergesse, senza risultato.
Altro difetto è stata l’incapacità di identificarmi nella protagonista. Gala è piena di debolezze e passa tutto il tempo a lamentarsi dei suoi difetti e delle sue incapacità, ma al contempo dimostra una spiccata intelligenza e attimi di indomito coraggio.
Posso ipotizzare che sia la differenza di età che ci separa a non farmi calare per niente nei suoi panni. Non che io non abbia problemi, ben inteso.
Mi ha ricordato molto Nina, la protagonista della saga per ragazzi “La bambina della Sesta Luna” scritta anni fa da Moony Witcher. Semplice, con storie corte soprattutto. Che danno al lettore gli elementi essenziali per continuare ad andare avanti. Custodisco le sue avventure con affetto, memore che le lessi proprio a quattordici anni e che quindi riuscii perfettamente ad immedesimarmi.
Ad ogni modo, lentamente, si arriva all’epilogo. È subito chiaro che tante cose si siano risolte, ma che ben altre siano rimaste in sospeso. Dopo 68 capitoli il padre ancora non è tornato e solo in quello precedente a Gala è stato rivelato qualcosa su ciò che è realmente. È proprio in questo momento che, trovata la sabbia giusta, la bambina riesce ad attivare il meccanismo dell’Ecbàtana, il congegno che permette la reazione spazio-temporale, e finalmente compare lui, Sam Gloucestershire. Per brevi attimi, dopo qualche saluto, annuncia che ha ancora del lavoro da svolgere e senza altre spiegazioni, scompare di nuovo.
Gala in quel momento, costernata dall’incredibile avventura, decide che è arrivato sul serio il momento di crescere e di dare uno strappo al passato, per quanto doloroso potesse essere.
Sapere che la storia non fosse conclusa è stata la delusione più grande. Per quanto mi riguarda, il viaggio finisce qui, non sono per nulla invogliata a continuare e leggere il seguito.
Potevi essere un capolavoro, Gala Cox.

Ma per me non è un mistero che sia stata, purtroppo, una perdita di tempo.

Recensione: “Niourk – Il bambino nero” di Olivier Vatine


« All’epoca credevo ciecamente ai poteri della collana del vecchio… a quelli dei morti… e credevo agli dèi. »

Una pura, piccola perla.

L’opera del francese Olivier Vatine non può essere definita altrimenti. Commento contrastante, rispetto a ciò che viene raccontato in questa storia, impregnata di aria radioattiva e puzzo di devastazione.

Nel futuro si ritornerà nel passato; ciò che rimane della civiltà terrestre regredisce all’Età della Pietra.

In mezzo al deserto, in un’ormai utopica zona a sud dell’America, è stanziata la tribù di Thoz, il guerriero più forte, di ritorno da una battuta magra di caccia. Il vecchio “Lui-che-sa” è l’unico che può contattare gli dèi e chiedere che ci sia nuova selvaggina; così parte, sapendo già che al suo ritorno il bambino nero dovrà morire: è lui  la causa delle loro disgrazie. Ma passa il tempo e il saggio scompare. Il bambino, preso da sentimenti contrastanti, decide quindi di avventurarsi da solo attraverso i monti cubani per cercarlo.


Questo è l’inizio di un lungo viaggio, alla scoperta dell’antica civiltà. Incontrerà l’orso, il suo unico amico, conoscerà i mostri della Terra, riceverà in dono il fuoco degli dèi e rimarrà incantato di fronte alla dea di pietra. Un percorso verso la salvezza. Un percorso verso “Niourk”.

Non voglio raccontare altri particolari della storia, rischierei inutilmente di dare anticipazioni esagerate. “Niourk” è un fumetto che va gustato e letto senza sapere troppo, un omaggio alla fantascienza classica in chiave contemporanea. 

Le meravigliose e colorate tavole di Vatine lasciano affascinati pagina dopo pagina, fino al commovente finale. Questo si lega ai brevi dialoghi e ai pensieri del bambino, facendo quasi trasparire una storia delicata e poetica ma che in realtà porta in auge gli errori dell’umanità, troppo impegnata ad impugnare un’arma piuttosto che stringersi a vicenda la mano e puntare verso il benessere e il progresso di tutti.

I potenti hanno sempre avuto la convinzione di sapere cos’è meglio, cosa è giusto, cosa deve essere fatto. La soluzione stavolta è nelle mani di un bambino, proprio quello che più viene odiato per il colore della pelle e l’origine, che agirà diversamente, forse nel modo più inaspettato possibile.

Ha fatto bene? Ha fatto male? Verrà giudicato, verrà criticato. Questo è ciò che di meglio si sa fare, ora.

Ma quel che importa è leggere la sua storia. Raccontarla ai più giovani. Per non dimenticare.


Recensione: “Agorafobia” di Dario Moccia e Fubi

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Che cos’è l’agorafobia?
Il buon caro Zanichelli dà la seguente definizione:
“Paura morbosa degli spazi aperti quali piazze, strade larghe e simili.”
Fin qui tutto chiaro… o forse no?

È difficile riuscire a dare una spiegazione esaustiva di certe cose, specie quelle che riguardano la psiche. Anzi, è impossibile stare al passo con gli studi legati ad essa, sempre in continuo cambiamento ed evoluzione.


Soprattutto, chi cade nel pozzo nero delle fobie non sempre potrebbe essere d’accordo con chi, nel buio, fortunatamente non si è mai ritrovato.

Ma l’arte, come in questo caso, viene in nostro aiuto.

“Agorafobia” è la quotidianità di un uomo. Senza nome, senza età, dall’aspetto solo accennato. Passa le giornate decantando gli orari dei treni in arrivo e partenza. Oggi è una bella giornata: il letto è morbido, nessun ritardo.
Il giorno migliore di sempre.
Di sottofondo, il regolare e tranquillizzante “Tu-tum tu-tum”.

Basta un rumore di troppo per fargli perdere il controllo. 
Basta un ricordo nel momento giusto per scuoterlo e spronarlo ad essere di nuovo libero.
“Agorafobia” è la lettura che non ti aspetti. Non tanto per il modo in cui il tema viene trattato, quanto per l’autore di questa idea.

Chi conosce e segue il mondo di Youtube Italia, avrà sicuramente anche solo sentito parlare di Dario Moccia, il ragazzo toscano che ha creato la “Nerd cultura”, diffondendo nel web le sue opinioni fumettistiche e simili. Ciò che ho sempre apprezzato di lui, oltre che la sua invidiabile capacità di esprimersi di fronte ad una telecamera, è proprio il suo modo di fare: estroverso, divertente e dalla battuta facile. Tutto il contrario rispetto a ciò che ha effettivamente deciso di creare; una sorpresa in più sicuramente gradita.

A maggior ragione, sarebbe davvero interessante poter parlare del suo fumetto con lui, per capire come mai ha deciso di fare questa storia e perché. 

Questo fumetto riesce nell’impresa di inizio articolo? Sì. In parte. 
L’interpretazione di ciò che prova il protagonista è buona, d’impatto. Ma troppo frenetica, specie nello slancio finale. Sarebbe gradito un maggiore approfondimento o degli elementi presentati al pubblico in maniera graduale, scandendo di più i tempi. Chi legge, però, rimane coinvolto e stravolto man mano che va avanti; si sente in gabbia, proprio come l’uomo, fino alla catarsi finale.
Considero “Agorafobia” come un’anteprima, un racconto introduttivo nella mente di un duo agli albori che può dare al mondo dell’editoria tanto, tanto di più. 
C’è come la sensazione che il messaggio di fondo sia: “Non avete visto ancora niente.”

Prendetevi del tempo per leggere un’opera meritevole. Se vi piacciono le storie crude e psicologiche, quelle che vi danno un colpo nello stomaco, questa ne è un esempio. Soffermatevi a guardare le tavole disegnate da Fubi, dal tratto sporco, impreciso ma netto, disturbante in certi punti; perfetto per una storia impressionante come questa.
Prendetevi del tempo per comprendere. Non abbiate fretta, rifletteteci. Lasciatelo da parte, riprendetelo. Date una chance, non ve ne pentirete.



Recensione: “Morgan Lost” di Claudio Chiaverotti

« Un cacciatore di serial-killer è lui stesso un pazzo, tormentato da incubi che cerca malamente di allontanare, distogliendo lo sguardo… come seppellire uno zombie pochi centimetri sottoterra » 


Dopo mesi di silenzio, torno sul blog per parlare di quello che ultimamente è sicuramente uno dei fumetti più chiacchierati del momento: Morgan Lost, ultima creatura della Sergio Bonelli Editore che prende vita grazie alla mente di Claudio Chiaverotti (sceneggiatore di Brendon) e ai disegni di Michele Rubini.
L’albo, “L’uomo dell’ultima notte”, è uscito in edicola il 20 Ottobre e avrà cadenza mensile. Con questa storia si ha una sorta di ritorno alle origini: al contrario di Orfani o Lukas, la serie non è stata concepita in stagioni bensì su vasta scala, “Finché dura”, come dichiarato da Chiaverotti.

Prima di essere un eroe, Morgan Lost è un uomo come tanti altri, proprietario di una sala di proiezione di B-Movie, felicemente fidanzato con Lisbeth. La sua vita, in una notte, cambia radicalmente. Per lui è impossibile dimenticare, perché da quel momento in poi, ogni volta che si guarderà allo specchio, vedrà sul volto una maschera nera tatuata. Diventa, così, uno dei più conosciuti cacciatori di taglie della città. Nessun potere, solo la volontà di esorcizzare i propri demoni.

Ci troviamo quindi catapultati a New Heliopolis, una metropoli selvaggia e al limite della follia, in cui le star in voga sono i serial killer, i “mostri” più crudeli del momento. Il notiziario ne presenta una carrellata su grande schermo, mentre la folla acclama e incita la conduttrice a proseguire. 
In ogni pagina l’atmosfera è fredda come la neve che cade incessante e inquietante come i tormenti che arrivano dall’oceano e che appaiono agli occhi del protagonista con tinte bianche e nere smorzate da sprazzi rossi come il sangue.
“…ma su una cosa Finker ha ragione: sono diventato un cacciatore. A volte posso sentire l’urlo della città, ed è come se ci fossi solo io… la notte… e tutti i mostri là fuori. Non esiste niente di più bello.
Le premesse per una storia thriller di successo, dai toni pulp tipici dei migliori film del genere, ci sono tutte. Rispetto ad altri personaggi Bonelli, risulta più semplice per i lettori immedesimarsi in questo uomo, armato solo di una pistola, e in questo mondo, metafora di una società sempre più in decadenza. L’attenzione non cala mai, fino all’ultima pagina; si è sempre più curiosi di scavare non solo nel passato del protagonista, ma soprattutto nel futuro, conoscere i nemici che si ritroverà ad affrontare e gli incontri all’apparenza casuali ma inevitabili. Questo primo numero lascia diversi spunti di riflessione ma anche tanti interrogativi che, possiamo avere la certezza, verranno risolti nei prossimi episodi.

Al momento siamo al fine primo tempo, ma affrettatevi a rimediare la lettura e ad accomodarvi per la seconda parte: “Non lasciarmi” sarà in edicola dal 19 novembre.