Recensione: “La strada” di Cormac McCarthy

« Tutto bene?, chiese l’uomo. Il bambino annuì. Poi si incamminarono sull’asfalto in una luce di piombo, strusciando i piedi nella cenere, l’uno il mondo intero dell’altro. »

Il mondo è vittima dell’umanità, l’umanità è causa del suo male. Ora non c’è più vita, l’uomo è costretto a sopravvivere in mezzo alle macerie, a difendersi dai suoi simili. “Homo homini lupus”, “Mors tua, vita mea”. 
Ecco cos’è l’apocalisse: lo specchio di un animale portato all’egoismo, alla crudeltà e alla ritrosia. Per avere salva la pelle non si può vendere l’anima o rinchiuderla in un quadro, ma combattere e vincere la selezione naturale nella speranza che passato l’inferno si ristabilisca un nuovo equilibrio. 
L’uomo e il bambino sono alla ricerca di questo equilibrio. Padre e figlio sono in cammino sulla strada verso un luogo dove il sole possa ancora scaldarli. Unici compagni: un carrello, una pistola, delle coperte e quel poco di cibo che riescono a trovare lungo il percorso. In fuga dalle bande di predoni che ormai di umano hanno ben poco, il padre racconta al figlio la propria vita, rievocando la madre morta diversi anni prima. Lo porta nella sua casa d’infanzia, visitano un supermercato in cui il bambino assaggia alimenti a lui tanto sconosciuti. Spesso devono nascondersi, devono combattere contro il freddo e le malattie. Ma rimangono sempre insieme, uniti dall’amore che provano l’uno per l’altro; “portano il fuoco” verso una meta senza nome, come loro, su una strada altrettanto anonima e interminabile, fino all’inaspettato epilogo.
Cormac McCarthy riduce tutto all’osso, come è giusto che sia: i dialoghi minimi, nemmeno scanditi dalla punteggiatura, le descrizioni lunghe racchiuse in frasi molto brevi. Come se anche la scrittura fosse stata danneggiata dalla catastrofe. L’insieme apparentemente povero rende preziosa questa storia semplice e ricca di emozioni.
Individuare ciò che è valido per un vero post-apocalittico è difficile, specie in un’opera dove un reale combattimento non è presente. Ma qui la lotta è lo svegliarsi ogni mattina e avere la forza di alzarsi e proseguire il viaggio; la fortuna di gustarsi un torso di mela e godere anche solo di una goccia d’acqua; la forza di non diventare come tutti gli altri che rinunciano alla ragione e si trasformano in altro. La lotta è quella fatta insieme, resistendo e sostenendosi a vicenda, con l’obiettivo comune di percorrere la strada e arrivare ad un traguardo.

Recensione: “Memorie di una Geisha” di Arthur Golden

« Lei si dipinge il viso per nascondere il viso. I suoi occhi sono acqua profonda. Non è per una geisha desiderare. Non è per una geisha provare sentimenti. La geisha è un’artista del mondo, che fluttua, danza, canta, vi intrattiene. Tutto quello che volete. Il resto è ombra. Il resto è segreto. »

Parola d’ordine: mistero. Il mondo orientale, per noi occidentali, avrà sempre un velo di mistero. Non potremo mai davvero capirlo, ma è anche questo che lo rende così affascinante.
La geisha è uno dei simboli caratteristici del Giappone. Ognuno di noi si figura una bellissima donna, col volto truccato di bianco e le labbra di un rosso intenso e vestita con l’indumento tradizionale detto “kimono”. Spesso la sua professione viene ritenuta come qualcosa di volgare, ma in realtà va ben oltre l’intrattenimento di uomini di un certo rango.
Il “gei” di “geisha” significa infatti “arti” e il termine “geisha” è sinonimo di “artigiano” o “artista”. Le geishe devono imparare l’arte della dialettica, della danza e del canto; devono saper suonare uno strumento musicale e condurre una cerimonia del tè. Non tutte le donne possono esserlo, e chi lo diventa lo è perché costretta. 
Questa è la testimonianza di Chiyo, conosciuta con il nome di Sayuri, sullo stile di vita delle geishe nel periodo della seconda guerra mondiale. Dietro la bellezza di un viso simile ad una maschera kabuki e abiti preziosi e raffinati, si nasconde una realtà fatta di sacrifici e mancanza di libertà. Un mondo dove si perde lo stesso nome, la propria identità e la possibilità di scelta. Ma lei è pronta a tutto pur di poter stare un istante in più al fianco del suo amato Presidente.
Arthur Golden fa breccia nell’incomprensibilità di chi a questa mentalità non appartiene. Lo fa con decisione e precisione, ma attraverso le parole delicate di una donna così diversa da lui per mentalità e tradizioni. 

Recensione: “Le dodici domande” di Vikas Swarup

« Dopotutto, com’è saltato in mente a uno spiantato di cameriere come me di partecipare a un quiz per cervelloni? Il cervello non rientra nella lista di organi che siamo autorizzati ad usare. Noi dovremmo usare solo le mani e le gambe. »

Si chiama “Vvum”, ma potremmo comodamente chiamarlo il “Chi vuol essere milionario” dell’India. Un gioco a quiz, 12 domande separano il concorrente dalla vittoria di un montepremi da capogiro. Non è semplice, ma nemmeno impossibile. C’è chi si affida all’istinto, alla fortuna, alla cultura personale. Ma è l’esperienza di vita che porta il protagonista del libro a partecipare alla corsa verso il migliaio di rupie.
Ram Mohammad Thomas, questo è il suo nome. Un nome singolare per un ragazzo cresciuto nei bassifondi di Mumbai, un nome che racchiude buona parte della sua storia. Non si sarebbe mai aspettato di finire in uno dei più popolari programmi del momento, ma di fronte ad ogni domanda che gli viene posta risponde correttamente, fino alla fine.
Dopo aver vinto Ram viene arrestato; accusato di truffa e raccomandazione. Il destino sembra per l’ennesima volta essergli contro, finché l’avvocato Smita Shah non prende le sue difese. Una donna misteriosa, ma determinata a scagionare l’innocente Ram, il quale inizia a raccontarle la sua avventurosa vita e a giustificare man mano le risposte al quiz.
Da qui vengono delineati i tratti di Salim, migliore amico di sempre, Padre Timothy, la prostituta Nita di cui è follemente innamorato, il crudele Maman. Ripercorre le piccole gioie e i grandi dolori che lo hanno portato a quel punto uno ad uno. 
Vikas Swarup mostra uno dei drammatici spaccati del paese, fatto sì di bellezze uniche ma anche di lotte tra bande e mercanti di bambini. Un libro intenso che ha ispirato il film “The Millionaire”, campione d’incassi nel 2010. 
A volte basta essere nel posto giusto al momento sbagliato, fare domande e leggere notizie che apparentemente non farebbero differenza nella vita. Basta una moneta con testa da entrambi i lati come portafortuna e raggiungere i propri obiettivi con convinzione. A quel punto non importerà se si è ricco o povero, musulmano o cattolico, forte o debole. Tutte le ingiustizie subite verranno ripagate e si avrà sempre una scialuppa di salvataggio, come l’aiuto previsto dal quiz. 

Recensione: “Una bambina” di Torey L. Hayden

« Ma in questi bambini c’è di più. C’è il coraggio. Mentre la sera siamo davanti al telegiornale, a sentire di nuove, emozionanti conquiste in qualche terra lontana, perdiamo i veri drammi che si vivono intorno a noi. È un peccato, perché lì c’è più coraggio che da ogni altra parte. »

Le storie vere hanno in genere maggior impatto emotivo sulle persone. Leggere di esperienze, soprattutto drammatiche, lascia a fine lettura come una sensazione di vuoto; si è increduli di fronte a certe realtà, è difficile accettare che molte cose accadano sul serio.
Si rimane per qualche secondo bloccati nel tempo, con gli occhi sull’ultima pagina del libro in questione. Come davanti allo schermo di un computer spento, che è buio ma allo stesso tempo possiamo vederci riflessi in esso.

Torey non poteva credere che quella raccontata sarebbe stata una delle esperienze più belle, ma anche più problematiche, della sua vita. Aveva già lavorato con bambini emotivamente labili, sapeva come comportarsi. Ma quando una mattina legge di un bambino di tre anni legato ad un albero e bruciato vivo da una ragazzina di sei anni, non può immaginare che da quel momento qualcosa sarebbe cambiato.

Non passa troppo tempo prima che Sheila entri a far parte della sua classe di “bambini difficili”. Non parla, ma nemmeno vuole rendersi partecipe alle attività quotidiane e se infastidita ha scatti di pura violenza. Da tutti è considerata irrecuperabile, ma la donna non si arrende. Passerà momenti di stress, di sconforto e frustrazione, ma con pazienza e determinazione farà breccia nel freddo cuore di una bambina solare e da un’intelligenza fuori dal comune. Tutto sembra andare per il meglio, finché l’insegnante scava più nel profondo e scopre orrori che avrebbe preferito non conoscere.
La scrittura è semplice e pulita, la storia lineare nei suoi alti e bassi. Torey Hayden riesce appieno nel suo intento di non scrivere un libro fine a se stesso. È la risposta a tutte le volte che si è sentita dire “Non è frustrante?”, la testimonianza di un mondo generalmente sconosciuto o addirittura quasi ignorato. In mano non ha alcuna soluzione o bacchetta magica, sa che purtroppo dimostrare amore nei confronti di questi bambini non basterà mai, anche se loro sapranno di rimando essere affettuosi ed insegnare molto più di quanto non venga fatto a loro.
Ma è comunque un tributo a tutti quelli che ce l’hanno fatta, una spinta per chi vive questa situazione ed è portato ad arrendersi. Tutti possono essere come Sheila, una bambina piccola che nel suo piccolo è sopravvissuta anche quando tutti la davano per persa.
In una realtà in cui è la crudeltà a fare da padrone, è l’innocenza e il divertimento che sono in grado di contrastarla.